martedì 13 novembre 2012

DJOKOVIC E' IL NUOVO MAESTRO DEL TENNIS MONDIALE

Il serbo si impone con il punteggio di 7-6 7-5 su Roger Federer e si aggiudica il Master di fine anno.

Londra 12/11/2012 – Una finale spettacolare. Non ci sono altre parole per definire la finale del Master  World tour finals giocata ieri sera nel magnifico impianto dell’ O2 arena. E i protagonisti di un tale spettacolo non potevano non essere loro due: Novak Djokovic, il numero uno della classifica mondiale, e Roger Federer, l’intramontabile numero due della classifica Atp. I due maestri del tennis hanno dato vita  a una sfida mozzafiato, a uno scontro epico che di sicuro rimarrà negli annali del tennis mondiale.
PRIMO SET : Federer parte subito forte strappando  il servizio al suo avversario e portandosi  nel giro di pochi minuti sul punteggio di tre games a zero. Il campione svizzero cerca di dare subito una svolta alla partita facendo perno su una ottima prima di servizio e sul suo diritto micidiale. Il ritmo iniziale imposto dal numero due del mondo sembrava aver messo alle corde il campione serbo. Ma proprio quando tutto sembrava perduto, Djokovic trova la forza per reagire. Il numero uno del mondo, dopo essersi liberato dal torpore iniziale, incomincia a rispondere colpo su colpo. E dopo venti minuti di autentica battaglia, al quinto game riesce a strappare il servizio all’avversario e a riportarsi in parità sul tre a tre. Ma Federer non ci sta. E dopo aver vacillato per tre game sotto il tiro incrociato del serbo reagisce e si riporta avanti cinque a quattro. Al decimo game,  e sul suo turno di battuta, il campione svizzero ha la possibilità di chiudere il primo set, ma Djokovic ritrova ancora una volta la sua spietata determinazione e  ricomincia a macinare punti da fondocampo. Alla fine il campione serbo riesce a strappare il servizio all’avversario e a portarsi sul  sei pari. Si va al tiebreak. Federer deve ricominciare di nuovo tutto daccapo. Ma stavolta a portarsi  avanti è Djokovic, mentre Federer è costretto a  inseguire il suo avversario fino al colpo del cinque a cinque, momento in cui il campione   svizzero fa rimanere di stucco il suo sfidante realizzando un passante di diritto mentre era  spalle alla rete.  Djokovic rimane esterrefatto sotto rete a pensare al colpo appena messo a segno del suo avversario. Mai nella storia del tennis  si era vista una cosa simile. Ma al campione serbo bastano pochi secondi per riprendersi dallo shock. E una volta tornato a fondo campo riprende a martellare il suo avversario chiudendo il tiebreak sull’ otto a sei  e aggiudicandosi il primo set. 
                                                                                                                       
SECONDO SET: Federer riprende alla grande, mettendo sin da subito in campo il suo tennis migliore. Come nel primo set, riesce strappare subito il turno di battuta al suo avversario e a portarsi sul tre a uno. Djokovic, invece, da parte sua, appare nervoso e un po’ stanco. Sembra aver pagato oltremodo lo sforzo sostenuto nel primo set. Ma  chi conosce il serbo sa benissimo che con lui non è mai detta l’ultima parola. Djokovic è un osso duro, uno di quei tennisti che ha fatto della tenacia e della calma determinazione i suoi punti di forza. E così, come successo nel primo set, il campione serbo ricomincia  a macinare punti su punti da fondocampo. E alla fine la svolta arriva al decimo game quando il punteggio era sul cinque a quattro in favore dello svizzero. Djokovic riesce a rispondere da fondocampo a tutti gli attacchi dello svizzero; quasi come se fosse un muro di gomma capace di rispedire al mittente qualsiasi colpo. Gli scambi diventano lunghi ed estenuanti: soprattutto per il trentunenne svizzero. E alla fine il campione elvetico  è il primo  a risentire della fatica. A causa di un paio di errori gratuiti lo svizzero spreca due set point sul 40-15 e cede il game al serbo.  Siamo sul cinque pari. Lo svizzero è alle corde: non ha più la lucidità necessaria per imporre il suo gioco. Il venticinquenne serbo, invece, riesce a correre su e giù per il campo come un forsennato e a recuperare palla dopo palla tutti gli attacchi del suo avversario. Gli scambi sono sempre più lunghi e gli errori del campione svizzero sempre più frequenti. Federer non ce la fa più. E al dodicesimo game, quando il punteggio era sul sei a cinque per il serbo, Djokovic chiude la partita in due ore  e 15 minuti infilando lo svizzero con un passante di rovescio.
Alla fine ha vinto il migliore, il prototipo del giocatore moderno. Un super atleta capace di mantenere sempre alta l’intensità dello scambio a dispetto della fatica. Djokovic è diventato ormai il dominatore del tennis mondiale, un vero  e proprio cannibale capace di vincere su tutti i campi. E se nemmeno la classe di Roger Federer ha potuto nulla contro il nuovo re della classifica Atp, allora non resta altro da fare che aspettare il ritorno in campo di un altro mostro sacro del tennis mondiale: Rafa Nadal.

venerdì 9 novembre 2012

LA GENERAZIONE DEI DANNATI

« Ormai le offese mosse alla mia generazione non si contano più. E l’ultima uscita del ministro Fornero, a pensarci bene, non è stata poi così pesante: ne ho sentite di peggiori» ha detto Francesco, un giovane di 26 anni e con in tasca una laurea in Scienze politiche con indirizzo internazionale. Francesco si è laureato circa due anni fa presso la Federico II di Napoli con ottimi voti, ma da quando ha conseguito la laurea non è ancora riuscito a trovare un lavoro decente. « Durante gli studi – ha proseguito il ventiseienne -   ho lavorato come cameriere. E anche se la paga era da fame  e in nero non mi sono mai lamentato: dopotutto ero ancora uno studente. Ma adesso, anche se continuo a fare il cameriere e a spezzarmi la schiena per pochi spiccioli, non posso più accettare  l’idea di rimanere in queste condizioni. Ho voglia di guardarmi in torno, di  trovare un lavoro migliore: un lavoro che mi riservi per lo meno un trattamento dignitoso».  Si perché, il punto della questione è tutto lì, in questa parolina che ormai nessuno vuole più pronunciare. Dignità. Ma quando si parla di dignità i ragazzi non pensano certo alla poltrona di Marchionne e né tantomeno a quella del ministro degli Esteri. Quella generazione   di ragazzi colpevole di essere nata tra la seconda metà degli anni settanta e la prima metà degli anni ottanta forse sarà anche una generazione  di piccoli sognatori, ma di certo non è una generazione di stupidi. La maggior parte di questi  “bamboccioni”  sa benissimo che i loro sogni rimarranno per sempre chiusi in un cassetto. Sono consapevoli, ma soprattutto pronti ad accettare qualsiasi lavoro gli venga proposto. A patto, però, che nessuno osi calpestare la loro dignità. « La cosa che mi fa più male non sono le offese. Ci hanno chiamato in tutti i modi:  mantenuti, mammoni, choosy. Addirittura a qualcuno una volta gli è venuto in mente di farmi notare che quelli come me “ non sanno inventarsi il mestiere”» ha detto Claudio, un ragazzo di 29 anni e con una laurea in Sociologia dimenticata chissà dove.  « La cosa che più mi brucia - ha rimarcato il ventinovenne inviperito- è che a farmi sentire un derelitto sono quelli che per più di quarant’anni si sono ingozzati come dei maiali senza mai chiedersi se tutto quel benessere potevano permetterselo. Quelli che appartengono alla  stessa generazione di cui fanno parte anche i miei genitori e che è vissuta nel pieno del boom economico; la stessa generazione che ha lasciato a me e ai miei coetanei una situazione insostenibile fatta di corruzione, disoccupazione ed enormi buchi di bilancio da ripagare. Mi sarebbe tanto piaciuto trovarmi al loro posto, in quegli anni contraddistinti dal benessere e dello sviluppo economico dove bastava avere “ la voglia”  per meritarsi un contratto di lavoro dignitoso. Oggi, invece, durante i colloqui di lavoro i dirigenti stipendiati dalle piccole e grandi realtà imprenditoriali del paese  offrono ai candidati in cerca di lavoro la prospettiva  di  aprirsi una partita iva per lavorare come “imprenditore di te stesso” presso la ditta di qualcun’ altro. Mi sarebbe davvero piaciuto vedere i miei detrattori  versare nelle mie stesse condizioni e con lo stesso rapporto di lavoro, presentare la richiesta di un mutuo a uno sportello bancario. Dubito fortemente che sarebbero riusciti a costruirsi un avvenire». E anche  Claudio, come del resto quasi tutti i suoi coetanei  che vivono nella provincia di Napoli, è  «costretto» a vivere ancora con i suoi genitori. E non certo perché è uno scansafatiche. Claudio è uno dei tanti che avrebbe voluto abbandonare il nido familiare subito dopo la laurea, a 25 anni. Ma gli sono bastati pochi mesi dal conseguimento del titolo per capire che avrebbe dovuto mettere da parte le  ambizioni personali e accontentarsi di un lavoro qualsiasi. Già durante gli ultimi anni di università, infatti, il giovane laureando partenopeo di belle speranze, pur venendo da una famiglia appartenente al ceto medio che non gli ha mai fatto mancare nulla, ha incominciato a lavorare per  una piccola società di vigilanza che offre ai suoi dipendenti l’opportunità ( si fa per dire) di lavorare su tre turni per la modica cifra di cinque euro lordi l’ora. E poco importa se il turno cadeva la  notte di Natale o di Capodanno. La paga era sempre la stessa: cinque miseri euro … e per di più lordi. Il che, per dirla in  soldoni e far afferrare il concetto a ministri, sottosegretari e vecchi brontoloni di turno che non hanno la percezione della realtà, significa portare a casa non più di cinquecento euro alla fine di un  mese  fatto di duecento ore di lavoro, di turni estenuanti e di  rischi ovviamente non coperti da  assicurazione. E tutto questo, non certo per portare a casa una paga da onesto lavoratore, ma solo per  «far tacere la mia coscienza di figlio devoto e responsabile che vuole a tutti i costi evitare l’onta di passare per mantenuto» ha ribadito uno sconfortato Claudio  mentre cercava  a fatica di trattenere le lacrime. E basta andare un po’ più in là con l’età  per trovare storie di vita ancora più piene  di rabbia e sconforto. Storie come quella di Davide, un giovane partenopeo di 34 anni che, dopo aver fatto tanti sacrifici,  messo spalle al muro dalla crisi, decide di rimettersi subito in gioco dopo il conseguimento della laurea. « Nel 2009, anno in cui ho conseguito la laurea in Scienze politiche, ho pensato di mollare tutto per qualche mese  e andare in Inghilterra allo scopo di migliorare il mio inglese ed  avere maggiori possibilità di trovare un lavoro decente al mio ritorno in patria» ha affermato il trentaquattrenne. Così, Davide lascia per tre mesi il suo  lavoro di portiere presso una fabbrica di abiti di Arzano di Napoli ( anche questo mal pagato e con partita iva) per  andare a studiare  l’inglese  a Brighton, una piccola città del Sussex. E l’esperienza all’estero è piaciuta così tanto al giovane volenteroso che al suo ritorno in patria, non riuscendo a trovare un lavoro migliore, decide di ritornare a svolgere il suo vecchio lavoro, ma senza abbandonare l’idea di migliorare il suo inglese. Davide  ricomincia così a studiare. E dopo dieci mesi fatti di ore di studio durante i turni di notte, il giovane napoletano consegue un altro titolo presso un’importante istituto inglese sito a Napoli. Tuttavia, per uno strano scherzo del destino, le soddisfazioni di Davide sono destinate a finire tutte le volte che termina un percorso scolastico. Le cose stavano di nuovo per cambiare:  e anche questa volta in peggio. La fabbrica presso la quale Davide stava svolgendo il  suo  lavoro pidocchioso stava per fallire a causa della crisi. Da quel momento in poi Davide ha iniziato a pensare a cos’altro poteva fare per scampare a un destino infame. E a un anno dal suo ritorno in Italia decide di ripartire alla volta di Roma per frequentare un master in giornalismo internazionale. « Allora tutti dicevano che la cosa migliore da fare  era quella di migliorare il proprio profilo personale mentre tutto era fermo. Così facendo (  secondo gli  esperti) sarebbe stato più facile trovare lavoro una volta finita la crisi» ha spiegato Davide.   Ma le cose andarono in modo diverso. La crisi iniziata nel 2008 in America e che secondo le prime stime degli economisti sarebbe dovuta terminare nel 2011, ha continuato a mordere le economie europee fino ai giorni nostri. E oggi c’è anche chi dice che una vera e propria ripresa economica ci sarà solo nel 2015 ( quando Davide avrà 37 anni). E tutto ciò il nostro amico ultratrentenne lo ha potuto sperimentare sulla propria pelle quando, subito dopo la fine del master, ha iniziato a mandare curriculum e a ricevere le prime risposte. « Le offerte di lavoro che mi arrivavano erano allucinanti. Alcune testate mi hanno offerto cinquanta centesimi ad articolo, altre un euro; altri invece una collaborazione che aveva come premio finale l’iscrizione all’Albo dei pubblicisti. E siccome non c’è mai fine al peggio, qualcuno si è anche permesso di avanzare delle proposte al limite della stupidità. Fu il caso di un giornale online, ilpallone.net , che dopo aver ritenuto un mio articolo di prova “soddisfacente”  arrivò a farmi la proposta più assurda che io abbia mai sentito: il direttore, di cui non ricordo il nome, arrivò a mandarmi via mail un’offerta in cui c’era scritto che avrei potuto lavorare per il suo giornale online solo nel momento in cui gli avessi trovato uno sponsor. Una volta fatto ciò, avrei potuto iniziare a scrivere per il suo giornale sportivo percependo il trenta percento dei finanziamenti  che lo sponsor avrebbe versato mensilmente alla sua testata». Naturalmente, dopo quella esperienza, Davide ha preferito lasciar perdere il giornalismo e  le previsioni degli esperti  per ritornare a guardarsi  intorno. E l’obiettivo era sempre lo stesso: trovare un lavoro «semplicemente » dignitoso. Così Davide riprende a inviare curriculum, a fare colloqui e, dulcis in fundo,  a presentarsi nei patronati in cerca di uno straccio di lavoro: non lo avesse mai fatto. Non che sia un reato presentarsi in uno dei tanti patronati presenti sul territorio nazionale: ci mancherebbe altro. Ma, a sentire Davide, forse, quella del patronato è stata la sua esperienza peggiore. « Quando sono arrivato nel patronato  per consegnare la domanda di  aspirante alla carica di “personale non docente”  da inserire nelle scuole, oltre ad aver assistito a una ressa tra disperati che cercavano consigli a destra e a  manca per  guadagnare qualche punto in più in graduatoria, ho capito una cosa sbalorditiva: in questo paese, chi si impegna allo scopo di migliorarsi è un coglione». Davide, ovviamente, si era presentato in quell’ufficio con la sua cartellina piena di speranze. Pensava che i titoli sistemati in quella cartellina avrebbero potuto dargli  maggiori possibilità rispetto agli altri concorrenti di ricoprire il ruolo di bidello o di impiegato. Ma le speranze di Davide erano destinate a infrangersi anche stavolta. « Quando ho consegnato la cartellina all’addetto alla compilazione dei moduli – ha continuato Davide -  questo ha iniziato a scartare tutti i documenti come si fa con la carta straccia in cerca del diploma delle scuole medie. E quando gli ho fatto notare che tra quelle scartoffie  c’era anche la fotocopia della mia laurea in Scienze politiche conseguita a pieni voti, il dipendente del sindacato  gli ha dato un’occhiata e poi ha segnato sul modulo altri due miseri punticini. Il resto dei titoli, i certificati di lingua e  il master  non li ha nemmeno presi in considerazione. Agli impiegati non interessava sapere quanto avessi studiato o quanto mi fossi impegnato. A loro premeva solo sapere se avevo conseguito un qualsivoglia diploma e se nel frattempo avevo messo su famiglia: in parole povere, ai sindacati e agli enti dello stato interessava solo sapere se ero abbastanza mediocre da meritare quel posto di lavoro».  Dopo aver preso l’ennesima batosta, a Davide non è rimasto altro da fare che tornare mestamente nel  luogo da cui era partito: a casa di sua madre. « Attualmente – ha ribadito un furente Davide – la famiglia è l’unico ammortizzatore sociale che riesce a salvare migliaia di giovani dalla fame più nera, ma non dalla vergogna.  E quando parlo di vergogna mi riferisco a quello  che si prova quando ci si rende conto che a più di trent’anni non si ha quasi nessuna possibilità di poter seguire quello stesso istinto naturale che circa quarant’anni fa ha portato intere generazioni a staccarsi dal nido per costruirsi un avvenire contando sulle proprie forze  e sul proprio “ onesto lavoro” di tutti i giorni. Alla generazione di dannati a cui appartengo, alle volte, sembrano essere rimaste solo due scelte. La prima è quella di lavorare per l’unico datore di lavoro che in questo momento ha soldi da spendere: la criminalità organizzata. Le mafie, oltre ad avere soldi a  sufficienza per finanziare tutte le grandi opere di questo paese, possono assicurare a un affiliato uno stipendio sicuro e una prospettiva di carriera: proprio come facevano un tempo le aziende italiane. E se poi a ciò si unisce l’odio che ormai milioni di giovani nutrono nei confronti della politica e del proprio paese, non è difficile intuire che, anche per chi viene da quartieri tutt’altro che malfamati, la via verso  le tentazioni criminali potrebbe diventare più allettante che in passato. In questo momento non è facile quantificare quanti giovani credono ancora nello Stato e nelle istituzioni, ma c’è da scommettere che una grossa fetta dell’elettorato giovanile diserterà le urne perché in collera con la classe dirigente che ha guidato il paese negli ultimi venti anni e che, nonostante i fallimenti, è pronta a ripresentarsi alle prossime elezioni».  Ma  a far impallidire non è certo la prima scelta di cui stava parlando poc’anzi Davide, bensì la seconda. « Tuttavia –  ha continuato il trentaquattrenne – per gente come me che viene da delle famiglie oneste e rispettabili, accettare dei compromessi e scendere a patti con la malavita è impossibile. Amiamo troppo i nostri valori per abbassarci a tanto. Allora, stando così le cose, non sono pochi i giovani padri di famiglia e i disoccupati ultratrentenni che decidono di salvare la loro dignità di esseri umani seguendo gli esempi che i grandi condottieri del passato hanno lasciato ai posteri. Circa tremila anni fa, coloro i quali hanno dato vita alla nostra civiltà preferivano darsi la morte piuttosto che accettare un destino fatto di schiavitù e di umiliazioni. E oggi, ve lo posso assicurare, sono tanti, troppi, quelli che si trovano nella mia stessa situazione e che hanno iniziato a rivalutare quell’antica pratica. Se non altro, come ho sentito dire da qualcuno, e un modo per  “ salvare la propria dignità di uomo ed evitare il peso di una situazione insostenibile”». Tuttavia, Davide ha tenuto a precisare che lui non è tra questi e che proverà a farsi forza e  a  cercare sempre nuove soluzioni perché « a darla vinta a questo mondo infame» non ci pensa nemmeno. Ma d’altra parte, il fiero lottatore dei nostri giorni ha anche tenuto a precisare che « nessuno può permettersi il lusso di scaricare e né tantomeno di sbeffeggiare una generazione di dannati a cui è stato consegnato un mondo peggiore di quello in cui hanno vissuto i propri genitori. Dopotutto, oggi siamo gli unici a sapere cosa significa provare  vergogna, gli altri,quelli che negli ultimi vent’anni hanno fatto di tutto per far finire la mia generazione in fondo a un cesso si permettono il lusso di andare ancora in giro a  testa alta».

lunedì 5 novembre 2012

OTTAVIANO: QUANDO UN COMUNE VIENE ABBANDONATO


La sequenza di immagini mostra in che stato la giunta (dimissionaria) Iervolino ha lasciato il paese

mercoledì 10 ottobre 2012

Greci in piazza contro la Merkel

Atene 09/10/2012 – Ci sono voluti più di seimila poliziotti in assetto antisommossa per tenere una  folla di manifestanti  inferociti lontani dalla Cancelliera tedesca. Al suo arrivo all’aeroporto di Atene, la Merkel ha ricevuto  un’accoglienza  tutt’altro che calorosa. L’aeroporto era semideserto. Il Premier greco, Antonios Samaras, si è limitato  a rispettare il protocollo: ha stretto la mano della Cancelliera appena scesa dall’ aereo, l’ha accompagnata davanti al picchetto d’onore e, una volta finita l’esecuzione dei rispettivi inni nazionali, i due capi di stato hanno lasciato l’aeroporto  per raggiungere la sede del Governo ellenico. Nel frattempo, il calore, quello vero e per nulla formale, si era già riversato per le strade della capitale. Alcuni manifestanti hanno inscenato un’irrispettosa marcia nazista, altri invece hanno più semplicemente sfilato con striscioni pieni di slogan anti Merkel. E in un contesto simile, di certo, non potevano mancare  gli scontri. Frange di estremisti  hanno tentato di valicare i cordoni di sicurezza  davanti piazza Sintagma lanciando sassi e bastoni all’indirizzo delle forze di polizia. Le forze dell’orine hanno però prontamente sedato la rivolta con il lancio di lacrimogeni e provvedendo all’arresto di decine di manifestanti. Dal canto suo, la lady di ferro tedesca ha cercato di stemperare gli animi precisando  che la sua visita  era stata concordata col suo entourage al solo scopo di manifestare «l’appoggio e la vicinanza del governo tedesco» al Permier Samaras e al popolo greco per i sacrifici sostenuti negli ultimi mesi. La Cancelliera ha inoltre ribadito che « la presenza della Grecia nell’Euro non è mai stata in discussione». Ma c’è chi è pronto a giurare che dietro la visita lampo della Cancelliera ci sia stato dell’altro. Secondo Alex White,analista politico della J.P. Morgan, la visita del Capo del Governo tedesco «è servita soprattutto a chiarire la posizione della Cancelliera nei confronti della Grecia». «Attualmente – ha spiegato l’analista- la Merkel ha bisogno di mostrare una certa comprensione nei confronti dei greci in vista delle prossime elezioni politiche in Germania». Tra un anno circa, infatti, parteciperanno alle elezioni   tedesche anche i trecentomila greci ( di prima  e seconda generazione) che si sono stabiliti in Germania all’indomani della Seconda Guerra mondiale. E c’è da scommettere che i partiti di opposizione teutonici, Socialdemocratici in testa,  siano già pronti a fare il pieno dei voti tra i filo ellenici di Germania che, anche se pochi, in caso di testa a testa  potranno pur sempre tornare utili.

martedì 9 ottobre 2012

Chavez vince ancora, ma non stravince

Caracas(Venezuela) 08/10/2012 - E pensare che fino a qualche mese fa tutti lo davano per spacciato. Invece, nonostante la malattia il presidente venezuelano, Hugo Chavez, l’ha spuntata ancora una volta. La sua quarta  vittoria consecutiva alle elezioni  presidenziali è stata  netta, ma non plebiscitaria. Il leader socialista ha battuto al ballottaggio il giovane candidato del partito di opposizione Primero Justicia, Henrique Capriles, distanziandolo di quasi dieci punti( 54,42 a 44,92 percento). Il cancro e le chemioterapie non hanno impedito al presidente uscente di buttarsi a  capofitto nelle elezioni presidenziali. Anche se visibilmente gonfio e affaticato, il leader socialista è riuscito a infiammare i suoi sostenitori e a convincerli a dargli un quarto mandato. Ieri sera, dal balcone del palazzo Presidenziale, il vecchio leone nella sua immancabile camicia rossa  ha dato a molti l’impressione di avere davanti una persona diversa: con un’ insolita luce  negli occhi. Forse il leader socialista, mentre salutava i suoi sostenitori accorsi  in piazza per festeggiare l’ennesima vittoria, sapeva di aver fatto qualcosa di incredibile; sapeva di essere riuscito a battere  in un sol colpo il cancro e il suo oppositore politico. In un clima simile non potevano mancare le dichiarazioni da smargiasso del leader socialista. « Oggi abbiamo dimostrato al mondo intero che la democrazia venezuelana è una delle migliori del mondo» ha detto  il presidente  dal balcone di palazzo Miraflores mentre sventolava una spada simile a quella dell’ eroe nazionale Simon Bolivar. Tuttavia, il leader  venezuelano avrà bisogno di ben altro per convincere l’occidente, Stati Uniti in testa, che il suo sia diventato un vero e proprio regime democratico. In fondo, e questo Chavez lo sa bene, è difficile presentarsi al mondo intero come un leader democratico quando sei destinato a regnare per venti anni e dici di appoggiare i peggiori regimi dittatoriali, da quello Iraniano a quello Nord Coreano passando per quello bielorusso di Lucashenko. Pur stando così le cose, non sono mancati gli attestati di stima da parte di alcuni capi di stato, soprattutto sudamericani. Per l’occasione, infatti, il Presidente argentino, Cristina Fernandez, ha pensato di congratularsi con il vincitore lasciando un messaggio su Twitter in cui c’era scritto « la tua vittoria è la nostra vittoria. E’ la vittoria di tutto il Sudamerica e delle Canarie!». Ma come tutti sanno, la sbornia elettorale dura poco: il tempo di una notte. Il bello di solito viene dopo, quando devi   incominciare a occuparti dei problemi del paese: e il Venezuela di problemi ne ha ancora tanti. Primo fra tutti l’inflazione. Un male subdolo che rischia di affamare milioni di persone. Per non parlare poi della criminalità. La lotta per il controllo del mercato della droga e le continue scorribande dei gruppi criminali hanno causato dagli inizi del 2011 a oggi più di 19 milioni di morti. Numeri impressionanti che hanno fatto perdere non pochi voti allo storico leader. Non è un caso, infatti, se Capriles stavolta è riuscito ad accaparrarsi una grossa fetta dell’elettorato. Per l’astro nascente della politica venezuelana arrivare al 45 percento e impedire al presidente uscente di ripetere l’exploit delle scorse elezioni è stata comunque una vittoria. « Spero che il movimento politico che governa questo paese da 14 anni abbia capito che quasi la metà delle persone non la pensa più come loro» ha detto il leader dell’opposizione davanti ai suoi sostenitori in lacrime per la disfatta elettorale. Ma Capriles ha anche altri motivi per sorridere. Il leader di Primero Justicia sa bene che, per quanto Chavez sia un osso duro, il cancro lo ha fortemente debilitato. Ma soprattutto sa che nel partito socialista attualmente non ci sono uomini capaci di prendere per mano il partito e di stravincere le elezioni nel caso in cui il vecchio leader dovesse essere messo fuori gioco dalla malattia. Tuttavia, quest’ultime rimangono delle semplici aspettative. Per adesso i corvi e i detrattori che avrebbero voluto vedere Hugo Chavez in fondo a una fossa dovranno aspettare altri sei anni… malattia permettendo.

venerdì 5 ottobre 2012

GIORNALISTI A CREDIBILITA' 0

Napoli 05/10/2012 – Credibilità. Ecco quale dovrebbe essere la prerogativa principale di un giornalista. E dico “dovrebbe” perché negli ultimi anni in Italia quelli che fanno parte della categoria non si sono fatti mancare proprio nulla. Infatti, se scartiamo alcuni, pochi e isolati esempi di vera rettitudine giornalistica, i casi di scarsa credibilità sono stati innumerevoli: abbiamo avuto un direttore del TG1 che ha difeso a spada tratta l’ex governo durante il telegiornale; abbiamo visto servizi alla Tv  in cui un magistrato veniva sbeffeggiato perché reo( secondo la testata del TG5) di aver condannato ingiustamente il loro padrone; abbiamo  letto di direttori di giornali che hanno calunniato i loro colleghi per ripagarli delle critiche mosse da questi ultimi all’operato dell’ex governo; abbiamo  appreso di direttori di giornali costretti a scappare all’estero perché ricercati dalla polizia italiana per vicende legate a losche storie fatte di dossieraggi e ricatti perpetrati ai danni di avversari politici, e tanto altro ancora. Insomma, ce ne sarebbe abbastanza da far credere agli utenti di giornali e Tv che la credibilità dei giornalisti sia ormai un lontano ricordo. Sembrano distanti anni luce i tempi in cui Montanelli, dalle colonne de Il Giornale , sosteneva che la classe politica di allora, quella degli anni di tangentopoli, “ puzzava di fogna”. Ma allora era diverso. I giornalisti avevano una loro dignità professionale. Una dignità che gli imponeva di rifiutare anche le offerte più allettanti: soprattutto quando queste gli venivano fatte da chi stava per diventare il reuccio del paese.  Emblematica e indimenticabile fu a tal proposito  la risposta  che Montanelli,  all’epoca direttore del quotidiano Il Giornale , di proprietà della famiglia Berlusconi,  diede al Cavaliere quando quest’ultimo gli chiese di mettersi al «suo servizio» perché lui stava per «scendere in politica». Era il 1993, allora Berlusconi si apprestava a diventare l’astro nascente della politica italiana: una sorta di semidio a cui non si poteva dire di no.  Ma il semidio in quell’occasione aveva fatto i conti senza l’oste. E la risposta dell’allora direttore fu ferma, sprezzante.«Non è che io non voglio mettermi al tuo servizio» rispose l’allora direttore de Il Giornale . «Io – concluse Montanelli – non voglio mettermi a servizio». Chiunque avrebbe voluto vedere la faccia del Cavaliere in quel momento.  Ma di giornalisti di tale spessore ormai se ne vedono sempre meno in Italia. Oggi la categoria è piena di servi e di vigliacchi pronti a tutto pur di sedersi sulle poltrone che contano: anche a mettere in discussione la loro credibilità.  E questo è un po’ quello che è successo anche di recente all’attuale direttore de Il Giornale , Alessandro Sallusti. Un numero inimmaginabile di giornalisti hanno gridato( giustamente) allo scandalo, quando hanno appreso che per responsabilità oggettiva il “povero” direttore de Il Giornale avrebbe dovuto scontare una pena di  14 mesi di reclusione per un articolo ingiurioso sul conto di una tredicenne convinta ad abortire dalla madre e scritto da un certo Dreyfus  sul giornale Libero quando Sallusti ne era il direttore.  Quasi tutti hanno criticato il codice penale e le sue norme, ma solo in pochi hanno avuto la correttezza di ricordare che scrivere notizie false e calunniose su un giornale, oltre a essere un reato, è un comportamento da vile e non da giornalista serio. E se poi a ciò si aggiunge che sotto lo pseudonimo di Dreyfus si nascondeva un certo Renato Farina, ex giornalista cacciato dall’Ordine per essersi venduto ai servizi segreti deviati, allora non ci vuole un esperto di media per capire che anche la condotta dell’allora direttore di Libero fu tutt’altro che esemplare. Ma questo importa evidentemente a pochi e irriducibili rappresentanti del giornalismo di una volta. In fondo, in una categoria di iene come quella dei giornalisti, a chi può mai importare del fatto che in una democrazia liberale, in cui la stampa è per antonomasia un organo di controllo del potere, un giornalista si faccia pagare dai servizi segreti allo scopo di raccogliere informazioni e screditare l’avversario politico di turno dalle colonne di uno dei più importanti giornali del paese. E se poi le notizie pubblicate da quest’ultimo dovessero risultare false, allora pazienza.  Tanto, gli si può sempre prospettare la possibilità di scrivere fiumi di fandonie calunniose sotto pseudonimo. Proprio come hanno fatto Sallusti e Feltri con Farina, alla faccia della credibilità dei direttori di giornale.  

lunedì 17 settembre 2012

IO STO CON GOOGLE

Napoli 17/09/2012 - Come tutti sanno, il silenzio aiuta la riflessione. E adesso che le violenze in Medio Oriente sono terminate, quale momento migliore di questo per cercare di riordinare concettualmente la realtà e tirare fuori delle riflessioni che abbiano un po’ di logica? Dunque, partiamo dall’inizio. Tutto è cominciato l’11 settembre scorso, quando i nostri cari amici musulmani si sono accorti che un certo Sam Bacile, un immobiliarista americano di mezza età di fede ebraica, aveva scaricato su internet il suo “capolavoro”: un film sulla vita di Maometto costato a lui e ai suo finanziatori qualcosa come cinque milioni di dollari. Ora, non ce ne voglia il signor Bacile se ci permettiamo di dire che  in tempi di crisi  quei cinque milioni di dollari poteva anche risparmiarseli. Il suo film “Innocence of muslim”  è semplicemente ridicolo. Tuttavia, il film dell’immobiliarista americano non è stata l’unica cosa ridicola in tutta questa faccenda. Internet è pieno di imbacile che scaricano quotidianamente delle vere  e proprie porcate in rete. E tutti sono convinti di aver scritto o prodotto delle opere  meravigliose: che imbaciles ! Ridicolo, per esempio, è stato l’atteggiamento del presidente egiziano, Mohamed  Morsi, che dopo aver condannato le manifestazioni di violenza scoppiate nel suo paese ha poi aggiunto che la figura del profeta «è una linea rossa che nessuno deve valicare». Di fronte a un simile atteggiamento non si capisce se il presidente egiziano era a favore o contro le violenze nel suo paese. Ad ogni modo, una cosa è certa: se Morsi  ha pensato di intimorire qualcuno con le sue affermazioni da ultrà, allora anche lui merita un posto nella lista degli imbaciles. Tuttavia,la nomination al nobel per la ridicolaggine non spetta certo  al presidente egiziano. E nemmeno ai musulmani residenti in Europa che, manifestando oggi presso  l’ambasciata Usa di Londra allo scopo di ottenere le scuse del Governo americano, hanno di fatto protestato contro lo stesso diritto che in quel momento stava consentendo loro di manifestare liberamente. Peggio di loro, paradossalmente,  ha fatto l’amministrazione Obama quando ha chiesto  alla società di Google di cancellare il filmato da internet. Chi si fa portatore universale dei diritti fondamentali dell’uomo non può chiedere ai propri cittadini di rinunciare alla libertà d’espressione. E il fatto che Google abbia mandato a quel paese l’amministrazione americana è sicuramente l’unica nota positiva in un coro di voci e di proteste tanto ridicole quanto illiberali.  Chiarito ciò, resta solo un’ultima domanda :«può un imbacile qualunque scatenare una vera e propria rivolta in tutto il mondo musulmano?». A rigor di logica, la risposta dovrebbe essere:«no di certo». Ma la realtà è un’altra. La realtà e che, in alcuni luoghi la ragione è una fiammella isolata in un angolo buio, mentre la religione è ancora l’oppio che offusca la mente dei  popoli.  

lunedì 10 settembre 2012

Mankou suona la sveglia in Africa


Il giovane ingegnere congolese lancia il primo smartphone made in Africa
Brazzaville ( Congo) 10/09/2012 – Se il venticinquenne ingegnere africano, Vèrone Mankou, avesse esordito ripetendo la celebre frase di Steve Jobs “ stay hungry, stay foolish”, di sicuro non avrebbe riscosso molto successo nel suo continente. In Africa il problema della fame rappresenta una piaga che colpisce tutt’ora milioni di persone. Ma nonostante ciò, Vèrone ha dimostrato più volte di non volersi arrendere. Così, a nove mesi dal lancio del primo tablet made in africa, la società fondata  da Mankou, la Vo Mou Ka (Vmk), che per l’appunto in lingua locale significa “svegliatevi”, ha deciso di lanciare  anche un nuovo smartphone. L’ultima invenzione del giovane ingegnere africano si chiamerà  Elikia (che vuol dire speranza in lingala) e sarà in vendita già dal prossimo ottobre. E l’obiettivo della casa di produzione africana sarà proprio quello di competere con Apple sul mercato internazionale. «La nostra strategia è quella di creare prodotti capaci di competere con quelli delle grandi marche» ha detto Mankou durante la presentazione della sua ultima invenzione. « Tuttavia- ha aggiunto il capo della Vmk – è nostra intenzione tener conto dei valori africani producendo materiale Hi-tech a costi contenuti». Forse Mankou non sarà lo “Steve Jobs d’Africa”, ma di sicuro anche lui ha tutte le intenzioni di mandare un messaggio che vada ben oltre le solite campagne di marketing. D’altronde, i nomi delle sue creature parlano chiaro. Forse il giovane africano  di belle speranze, non che consigliere del ministro delle Telecomunicazioni congolese,  vuole davvero suonare la carica e ridare dignità a un intero continente. Ma come tutti sanno, le buone intenzioni e i bei discorsi non hanno mai riempito la pancia  a nessuno. Per diffondere la speranza in Africa ci vuole ben altro. Investimenti, lavoro, salari, tanto per cominciare. E proprio a proposito di investimenti si potrebbe partire, ad esempio, mettendo da parte gli slogan e  spostando l’assemblaggio dei  prodotti della Vmk dalla Cina all’Africa. Se non altro, sarebbe un bel modo per rispettare il messaggio pubblicitario “ Saty different” che campeggia su tutte le gigantografie del nuovo tablet. Quale occasione migliore di questa per fare davvero qualcosa di differente? Così facendo, un domani, Mankou potrebbe anche  cambiare il famoso slogan di Steve Jobs da “Stay hungry, stay foolish” in “Stay replete, stay foolish” e fare, e questa volta per davvero, qualcosa di diverso rispetto agli altri. Apple compresa.

sabato 7 aprile 2012

I politici italiani? Cadono tutti dalle nuvole

Lo sapevate che i politici italiani sono degli ignoranti? Ma non nel senso che sono dei somari… quello lo sapevamo già. Nel senso che tutti, ma proprio tutti, dalla punta della Sicilia all’estremo nord, ignorano ciò  che  accade quotidianamente sotto il loro naso. Non sanno mai nulla: cadono sempre dalle nuvole. Così, in vent’anni di seconda Repubblica le abbiamo viste proprio tutte: l’ex  ministro Scajola che non sapeva chi gli aveva comprato la casa a Roma con vista sul Colosseo, l’ex segretario della Margherita, Francesco Rutelli, che non sapeva nulla degli ammanchi nelle casse del suo partito, e l’ormai ex capo storico della Lega Nord, Umberto Bossi, che ignorava con quali soldi gli fossero stati pagati i lavori di ristrutturazione nella sua residenza di Gemonio, i diplomi e le lauree dei figli,i finanziamenti alla scuola privata della moglie e tutta una serie di spese extra a favore delle persone a lui fedeli. Alcuni di essi non sapevano nemmeno che in Italia si stava facendo largo una crisi economica spaventosa. Tant’ è vero che gli italiani hanno dovuto aspettare  “il governo dei professori “ per sapere con certezza che la crisi non era legata a un mero  « fattore psicologico». E non ci può essere dubbio alcuno sul fatto che questi signori non si siano mai accorti di nulla. In fondo, anche alle famiglie italiane oneste che  non riescono più ad arrivare alla fine del mese può accadere di tanto in tanto che qualcuno,a loro insaputa, gli paghi le bollette, il mutuo sulla casa, le rate della macchina. E chissà che qualcuno non gli abbia pagato, sempre a loro insaputa, anche una cena al ristorante: perché, si sa, in Italia « i ristoranti sono sempre pieni», non c’è mai una sedia libera: nemmeno a pagarla di tasca propria. Davanti a una simile realtà, se qualcosa andasse storto a nessuno verrebbe mai in mente di prendersela con loro, con i nostri “parlamentari tontoloni”. In fin dei conti i politici italiani sono solo dei “poveri sprovveduti “ che hanno guidato il paese fino a portarlo ad un passo dalla banca rotta. E anche nel caso in cui fossero riusciti a mandare l’Italia in malora, la colpa non sarebbe stata loro,ma degli altri.  E cioè: dei media, dei giornalisti e degli scrittori, che hanno usato la libertà di espressione  per «gettare fango sul nostro paese»; dell’Europa, rea di averci ricordato che non abbiamo mai rispettato i trattati; e in fine dei magistrati, rei secondo la classe politica di « non pagare abbastanza per gli errori commessi». Si perché gli onorevoli che hanno guidato l’Italia per ben otto degli ultimi dieci anni  hanno anche pensato di accanirsi contro coloro i quali vengono pagati per tenere sempre gli occhi aperti: quelli che, tanto per capirci, hanno il compito di controllare che  ai “poveri onorevoli” distratti dalle faccende familiari e dai bunga bunga  non  sfugga di mente  il fatto che non si possono usare i finanziamenti pubblici ai partiti per scopi privati, che ricevere soldi in nero è reato e che non possono, per nessuna ragione al mondo, avere rapporti con personaggi legati alla malavita. Effettivamente, sarebbe un vero scandalo se dei magistrati cattivi se la prendessero con dei “poveri sprovveduti” che hanno ricevuto solo 2,5 miliardi di euro  di rimborsi elettorali negli ultimi 18 anni. Tuttavia, gli italiani possono stare tranquilli, quei “simpatici scapestrati” dei nostri onorevoli hanno pensato bene di spendere solo 579 milioni. I restanti 1,9 miliardi di euro di rimborsi elettorali pagati dai cittadini sono stati messi in salvo  da qualche parte, magari all’estero. Magari in Tanzania, alle Cayman. O chissà in quale altro posto sperduto nei mari del sud. Al sicuro. Lontano. In posti impensabili dove mai nessuno, nemmeno quelli che glieli hanno dati, potranno reclamarli: nemmeno se dovessero servire per finanziare le pensioni o la cassa integrazione a quelle famiglie che, nei partiti e nei loro leader, ci hanno sempre creduto. 

giovedì 29 marzo 2012

Marocco: Amina risveglia la coscienza delle donne

Napoli 29/03/2012 – Qualche giorno fa, mentre stavo leggendo un articolo sulla condizione delle donne in Marocco, sono stato distratto dalle urla di una ragazzina marocchina che provenivano da sotto casa. Allora, preoccupato, mi sono affacciato dal balcone e ho visto una scena a dir poco insolita: la ragazzina, che avrà avuto all’incirca 15 anni, stava mettendo in fuga il  suo collega maschio dal semaforo che si trova a pochi metri dalla mia abitazione. Dalle nostre parti, si sa, il semaforo è per alcune generazioni di immigrati nordafricani un vero e proprio posto di lavoro. E con la crisi economica che ormai attanaglia il nostro paese,  gli automobilisti in fila ai semafori non sono più generosi come una volta. Così, la piccola marocchina è stata costretta, gioco forza, a scorciarsi le maniche e a farsi valere. Avreste dovuto vedere la faccia di  quel povero ragazzo in fuga: era terrorizzato. Mi sarebbe venuto da ridere, se non fosse stato per l’artico di giornale che avevo appena letto. L’articolo parlava per l’appunto di una giovane marocchina, Amina El Filali, che lo scorso dieci marzo si è suicidata ingerendo del veleno per topi. Amina aveva 16 anni, pressappoco l’età della nostra grintosa “ eroina dei semafori”. Ma a differenza della sua coetanea, Amina è rimasta in Marocco, in un paese in cui le donne hanno meno diritti di un cane. Amina, infatti, non si è suicidata perché, come a volte succede dalle nostre parti, è stata lasciata dal fidanzato. Amina si è suicidata perché la legge del suo paese l’ha costretta all’umiliazione peggiore: l’ha costretta, a soli 15 anni, a sposare il suo stupratore. Amina ha anche tentato di resistere, ma dopo sei mesi di matrimonio forzato ha deciso di  porre fine alle sue sofferenze con l’unico gesto estremo capace di ridarle quella libertà e quella dignità che le leggi marocchine le avevano negato. Nella monarchia marocchina, infatti, secondo l’articolo 475 del codice penale, lo stupratore può evitare il carcere se accetta di sposare la donna stuprata. Una soluzione che, secondo i giuristi del Marocco, consentirebbe alla donna di «mantenersi rispettabile» agli occhi della società. Ma soprattutto, consentirebbe alle famiglie delle ragazze stuprate di « evitare la vergogna» di avere dentro casa una ragazza non più vergine. Secondo il quotidiano Aufait « questi casi sono considerati “ordinari” in Marocco», ma per la prima volta, grazie  al gesto tanto disperato quanto orgoglioso  di una ragazzina di 16 anni, la coscienza delle donne marocchine è stata finalmente scossa a tal punto da spingere duecento coraggiose  a manifestare il 17 marzo scorso davanti al parlamento di Rabat per chiedere la modifica dell’articolo 475. « Vogliamo una nuova legge contro gli stupri» ha detto la sorella di Amina, Hamida El Filali, durante la manifestazione. «Ma più di tutto – ha aggiunto Hamida – vogliamo una legge che allo stesso tempo punisca gli stupratori e difenda i diritti delle donne marocchine». Anche le testate di mezzo mondo, colpite dall’accaduto, hanno appoggiato le rivendicazioni delle manifestanti nella speranza che in un giorno,  si spera non molto lontano, le donne marocchine che ancora risiedono in Marocco possano prendere finalmente a pedate i loro aguzzini: proprio come ha fatto “l’eroina dei semafori” dalle mie parti.    

martedì 27 marzo 2012

Il teatrino della Circumvesuviana

Napoli 27/03/2012 – Ormai comprare un biglietto della Circumvesuviana è diventato un po’ come comprare un gratta e vinci. Funziona così: l’utente compra un biglietto e, se gli  va bene, “vince” un viaggio di sola andata per la meta prefissata, mentre, se gli va male, viene avvisato all’ultimo istante da una scritta lampeggiante sul display delle partenze  che « il treno è stato soppresso». E il tutto, ovviamente, viene fatto senza preavviso e senza presentare le proprie scuse. Si perché, sono lontani i tempi in cui la compagnia di trasporti vesuviana si  scusava per  i disagi causati agli utenti : soprattutto da quando i disagi sono diventati “ la regola ” e non “ l’eccezione ”.  La Circumvesuviana di oggi non è più quella di una volta.  Non è più la compagnia ferroviaria che consentiva ogni giorno a migliaia di pendolari campani di raggiungere il posto di lavoro acquistando un biglietto del treno a costi accettabili. Oggi la compagnia si è evoluta in  qualcos’ altro. E’ passata in pochi mesi dall’ essere una delle società di trasporti più importanti del mezzogiorno a una sorta di “compagnia teatrale” famosa per le sue sceneggiate. E l’ultimo atto della “Premiata ditta Circumvesuviana”  è andato in scena ieri alle 13:00 nella stazione di Porta Nolana a Napoli, dove, alcune centinaia di pendolari, disperati, stavano aspettando con ansia che dai display luminosi uscisse finalmente la scritta «Treno in partenza». E quando finalmente la scritta è comparsa sul tabellone la gente, al settimo cielo per la notizia, si è subito diretta verso il binario numero sei per prendere  l’unico treno disponibile in quel momento, quello diretto verso la città di Sarno. Tutto è accaduto in un attimo: la gente si è infilata nei vagoni, ha occupato tutti i posti disponibili, si è aggrappata alle maniglie sicura che il treno stesse per partire e poi, proprio mentre tutti erano sicuri che le porte stessero finalmente per chiudersi , un attimo prima della partenza sono arrivati una serie di omini in divisa blu che con molta nonchalance, e una buona dose di strafottenza, hanno informato i passeggeri che l’ultima carrozza era  stata «staccata dal convoglio» e che si sarebbero mosse solo le prime due.  Ma come spesso accade in ogni commedia che si rispetti, i personaggi chiave della vicenda, i pendolari, non si sono dati per vinti: sono usciti dall’ultimo vagone come tori inferociti e sono andati a conquistarsi  un angolino  nelle carrozze davanti. Il treno era  stracolmo. Si riusciva a stento a respirare. Ma  nonostante ciò la gente era contenta perché l’incubo stava per finire; di lì a poco le porte si sarebbero chiuse e il treno avrebbe iniziato a muoversi… ma avevano fatto male i conti. Avevano dimenticato che nelle stazioni della Circumvesuviana i colpi di scena sono all’ordine del giorno. E così, a pochi istanti dalla partenza una vocina  che veniva fuori dagli altoparlanti  ha avvisato i passeggeri che il treno delle 13:02 per Sarno  sarebbe partito dal binario sette anziché sei.  In quel preciso istante, un silenzio tombale è calato tra i  passeggeri stipati nel treno come sardine. Tutti si sono guardati intorno, sbigottiti, fino a quando un vecchietto ha rotto il silenzio urlando: « ma chist so’ sciem». Quello del signore anziano è stato un urlo provvidenziale, una sorta di scossa che ha ridato alla gente, ormai esausta, la forza di riprovarci ancora. E un attimo dopo i pendolari erano già in corsa  verso il binario numero sette: il binario dal quale poi è finalmente partito il treno.  Scene di ordinaria follia come queste sono ormai all’ordine del giorno. Nelle stazioni e sui treni della Circumvesuviana si vede di tutto: capistazione che lasciano lo sportello incustodito per molto tempo, persone senza biglietto che scavalcano le barriere di ingresso ai treni, controllori che  non controllano più i biglietti e, dulcis in fundo, un’associazione a delinquere interna, composta dagli stessi dipendenti, che si è ormai arrogata il diritto di sopprimere senza preavviso decine di  treni ogni giorno. Di fronte a una simile situazione ci si chiede che fine abbiano fatto i registi di questa imbarazzante commedia, i manager dell’Ente autonomo Volturno, la holding regionale proprietaria della Circumvesuviana.  Purtroppo a questa domanda sembra non esserci nessuna risposta. Sembra quasi che gli attori di questa “sceneggiata napoletana” siano stati abbandonati a se stessi; quasi come se si sia in attesa di qualcos’altro. O forse sarebbe meglio dire di qualcun’ altro: magari di un nuovo acquirente. Si, di un nuovo proprietario  pronto a rilevare un carrozzone vecchio, svalutato  e senza credibilità che ormai non vale più nemmeno il costo del biglietto.

giovedì 22 marzo 2012

La Costa del pericolo

Napoli 20/01/2012 - Più che Costa Crociere io la chiamerei Accosta Crociere. Si perché, dalle ultime indagini giornalistiche, è saltata fuori una interessante novità. E cioè, che sono molte le navi da crociera ( non tutte appartenenti alla compagnia Costa) che hanno fatto la barba alle coste italiane, andandosi a ficcare finanche dentro al Canale di Venezia che, si sa, in quanto a larghezza non è certo  il Golfo di Taranto.  In certi casi verrebbe da dire, parafrasando un famoso passo della Bibbia, che è più facile veder passare una nave da 114 mila tonnellate in un posto stretto come la “cruna di un ago” che una barchetta di pescatori in mare aperto. Anche perché, nel caso delle navi da crociera, è quasi impossibile che qualcuno non si accorga del loro passaggio. Anzi, la nave deve fare di tutto per essere notata.  Il capitano della nave, infatti,  è tenuto  a salutare gli abitanti delle isole e delle città a cui solitamente fanno la barba con una triplice strombazzata. E Dio non voglia che l’ufficiale in comando si dimentichi le buone maniere. Qualche alto dirigente della compagnia navale potrebbe anche arrabbiarsi. Per non parlare poi dei sindaci e degli amministratori locali che da sempre tollerano certe visite un po’ avventate. Secondo la prassi ormai consolidata le parti sono tenute a mantenere rapporti di cordialità, che tanto bene fanno al business del turismo, ma che allo stesso tempo potrebbero fare tanto male alle persone che si trovano sulla nave o sulle banchine. Già, il business, gli affari, i soldi. In questo caso funziona così: io, sindaco, chiudo un occhio quando passi a pochi metri dagli scogli delle mie coste mostrando alle migliaia di persone a bordo le bellezze della mia città e tu, armatore,  chiudi un occhio quando si tratta di rispettare le regole del buon senso in mare allo scopo di  far vedere a chi sta  a terra quant’è bella la tua nuova nave da crociera.  E a dire il vero il giochino ha funzionato: o per lo meno ha funzionato fino alla sera di venerdì sorso quando, probabilmente, il capitano della Costa Concordia, Francesco Schettino,  ha deciso di chiudere,  non uno solo, ma entrambi gli occhi al momento del passaggio radente all’Isola del Giglio. Risultato: 13 morti, ottanta feriti, 24 dispersi, una nave di lusso (forse) irrimediabilmente sventrata e una perdita di immagine che al momento della riapertura della Borsa di Londra, lo scorso lunedì,ha fatto registrare un crollo del 20 per cento del titolo di Costa Crociere. Ma la tragedia a largo dell’Isola del Giglio non ha attirato solo l’attenzione dei mercati. Quest’oggi, infatti, il ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, presenterà al Senato un decreto sulle rotte a rischio. Il decreto, stando alle dichiarazioni del ministro, dovrebbe « prevenire il verificarsi di nuovi incidenti in zone sensibili ampliando le prerogative delle capitanerie di porto».  Insomma, l’ormai tanto consolidata intesa commerciale tra i sindaci e i manager delle compagnie di crociera sembra essere naufragata. D’altronde, l’immagine della Costa Serena, la nave da crociera che lo scorso mercoledì sera è passata  a circa 300 metri dal relitto della Costa Concordia, è emblematica… soprattutto se si pensa che al momento del passaggio la Serena è stata un po’ maleducata: non ha fatto nemmeno una “strombazzatina”.  

martedì 13 marzo 2012

Qualcuno salvi il Brasile... dalla sua polizia

Roma 13/03/2012 – Può un poliziotto incrociare le braccia e rimanere impassibile di fronte a un crimine efferato come l’omicidio?  Nella maggior parte delle democrazie occidentali la risposta sarebbe stata « certamente no», ma evidentemente  non in tutte le democrazie la si pensa allo stesso modo. Al mondo, infatti, ci sono paesi come il Brasile in cui ci sono voluti 13 giorni, decine di rapine e 178 omicidi per spingere  i poliziotti brasiliani in sciopero a riallacciarsi il cinturone e tornare in strada per difendere la vita e la dignità della loro gente: di quelli che, tanto per essere cinici, gli pagano lo stipendio… ammesso che di stipendio si possa parlare. Si perché, a differenza dei loro colleghi europei, i poliziotti brasiliani guadagnano all’incirca 1000 reais al mese, che tradotti in moneta europea fanno all’incirca 500 euro, ma che tradotti in linguaggio comune suonano come  «una miseria per cui non vale la pena di rischiare la pelle». Volendo essere obiettivi, è difficile pensare che un poliziotto o un carabiniere sia disposto a pattugliare i quartieri più malfamati di Napoli, Palermo, Roma o Milano per una cifra simile. E se è difficile per un poliziotto italiano, figuriamoci per un suo pari brasiliano costretto a fare la ronda nelle innumerevoli  favelas in cui di solito  si nascondono alcuni tra i narcotrafficanti più spietati del Sudamerica. Dalle nostre parti in molti avrebbero già marcato visita. Ma si sa, fare di tutta l’erba un fascio è sbagliato. Infatti, per dovere di cronaca, va anche detto che, oltre ai poliziotti che hanno scioperato, ce ne sono stati degli altri, circa un terzo, che hanno preferito continuare a prestare servizio per le strade di San Paolo, Rio de Janeiro e Salvador de Bahia. Peccato però, che tra quei pochi irriducibili servitori dello Stato verdeoro ci fossero anche alcuni poliziotti dalla condotta non proprio esemplare. Le storie sui poliziotti corrotti che per arrotondare lo stipendio si dedicano ad attività criminali non sono il frutto della fantasia di qualche dissidente, ma una triste realtà. « La polizia militare è una bomba a orologeria» ha detto una fonte missionaria vicina all’agenzia stampa Misna. « I poliziotti – ha aggiunto il missionario – sono mal pagati, mal protetti e quindi facili da corrompere. In un contesto simile c’era da aspettarselo che prima o poi sarebbe scoppiata una rivolta».  E il fatto che la legge sull’equiparazione degli stipendi tra la ben pagata polizia federale e quella “stracciona” degli stati membri della federazione brasiliana, la Pec 300, si sia arenata in parlamento circa quattro anni fa, pare dar ragione al missionario e a tutti quelli che credono che lo sciopero  sia solo il frutto di vecchie rivendicazioni sindacali. Ma così non è.  Così non può e non deve essere. Accettare una spiegazione simile significherebbe giustificare un atto irresponsabile, un’ omissione criminale che, seppur spinta da corrette rivendicazioni salariali, non può essere tollerata. In una democrazia che si rispetti le forze di polizia non possono lasciare milioni di persone in balia di bande di malviventi per tredici interminabili giorni  e poi chiudere lo stato di agitazione affidando il comunicato stampa a uno dei suoi leader, Ivan Leite, che oltre a non essersi scusato con le famiglie delle vittime ha parlato solo di una decisione presa a malincuore allo scopo di « evitare ulteriori disagi al turismo in vista del Carnevale». Si può parlare di “disagi” quando un pendolare a causa di uno sciopero perde il treno o il tram, ma non quando più di centosettanta persone sono state derubate e massacrate da bande di criminali fuori controllo.  Un simile atteggiamento denota uno scarso senso dello Stato proprio da parte di chi, quello Stato, dovrebbe difenderlo. Uno scarso senso dello Stato e dei diritti civili denunciato più volte dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani come Amnesty Iternational. Secondo il rapporto stilato dall’organizzazione nel 2010 « in tutto il Brasile sono stati registrati numerosi casi di uso eccessivo della forza, di esecuzioni extragiudiziali e di tortura per mano di poliziotti». E a finire tra le grinfie della polizia, il più delle volte, non sono i boss del narcotraffico, ma la povera gente che abita nelle favelas. Ma ciò che è peggio è che, stando sempre a quanto riportato da  Amnesty, « centinaia di uccisioni non sono state  indagate accuratamente e scarsi, se non nulli, sono stati i provvedimenti giudiziari intrapresi nei confronti dei poliziotti». Il problema, dunque, non è solo economico. In ballo non c’è solo l’aumento salariale dei poliziotti, ma anche la credibilità di un paese che mira a diventare un vero e proprio punto di riferimento per tutto il Sudamerica.

martedì 14 febbraio 2012

Bahia: gli agenti accettano l'accordo a denti stretti

Lo  sciopero  è  finito.  Alla  fine  il  sindacato  ha  ceduto: ma restano i malumori. I poliziotti di Bahia  dovranno  accontentarsi  di  un  6,5   per  cento   in  più nella busta paga.  E il leader sindacale   Leite   ammette  : « lo abbiamo fatto per non danneggiare il turismo».

Salvador de Bahia 13/02/2012 – Ci sono voluti 15 giorni, 130 omicidi e numerose razzie per indurre le parti a trovare finalmente  un accordo. Così, nella notte di sabato scorso è stata finalmente  trovata l’intesa tra il sindacato della Polizia militare di Bahia e i rappresentanti del governo che ha messo la parola  fine allo sciopero dei poliziotti. Ma il governo di Bahia ha accettato solo in parte le richieste del sindacato dei poliziotti. Gli agenti di polizia sono riusciti a ottenere un aumento dello stipendio pari al 6,5 per cento ( inizialmente il sindacato aveva chiesto un aumento del trenta per cento) e la promessa che non saranno presi provvedimenti disciplinari nei confronti degli scioperanti che non hanno preso parte alle violenze dei giorni scorsi. « I poliziotti hanno accettato l’accordo per consentire l’avvio del Carnevale e per non arrecare ulteriori danni economici al settore del turismo» ha detto l’ufficiale Ivan Leite, uno dei leader della protesta di Bahia. Non sono invece previsti sconti per i poliziotti che hanno preso parte all’occupazione del Parlamento di Bahia e per  i loro colleghi che hanno partecipato alle violenze durante i giorni della protesta. Il governo di Bahia ha intenzione di infliggere loro delle pene severe che vanno dal licenziamento all’arresto.

venerdì 10 febbraio 2012

Bahia: il parlamento è libero, ma lo sciopero va avanti

La paura di un blitz dell'esercito ha indotto gli agenti che avevavno occupato la sede del parlamento di Salvador de Bahia ad arrendersi. Tuttavia, il governo e il sindacato dei poliziotti faticano a trovare un'intesa. Ora, a essere in bilico, non è solo il Carnevale, ma l'immagine di tutto il Brasile


Salvador de Bahia 09/02/2012 – Alle prime luci dell’alba di questa mattina, i poliziotti che si erano asserragliati all’interno del palazzo dell’Assemblea legislativa di Salvador per protestare contro il mancato aumento degli stipendi hanno abbandonato il palazzo scortati dall’esercito brasiliano. Tra gli agenti c’era anche uno dei leader della protesta, Marco Prisco, che è stato prontamente arrestato dalla polizia federale. Secondo il legale di Prisco, l’avvocato Rogèiro Andrade, gli occupanti « hanno deciso di abbandonare l’edificio per evitare di aggravare la loro posizione giudiziaria e di dover far fronte all’imminente irruzione delle forze speciali dell’esercito». Tuttavia, la notizia dell’arresto di uno dei leader della protesta non sembra aver cambiato la situazione: lo sciopero prosegue. E i 12 mila poliziotti che hanno incrociato le braccia dieci giorni fa sembrano  proprio non avere nessuna intenzione di fare un passo indietro. Secondo fonti dell’agenzia Misna, di fatto, l’accordo tra il governo di Bahia e il sindacato dei poliziotti non è stato ancora  trovato. « I poliziotti hanno chiesto un aumento del trenta per cento degli stipendi e il governo alla fine avrebbe accettato. Ma il nodo del contendere è sui tempi. Il governo ha fatto sapere che avrebbe aumentato gli stipendi gradualmente, entro il 2015, e partendo dal mese di novembre. I manifestanti, invece, avrebbero voluto percepire parte dell’aumento già dal mese di marzo » ha riferito una fonte vicina all’agenzia . Le trattative, quindi, restano aperte. Ma mentre le parti sono impegnate a trovare una soluzione, le bande di malviventi che hanno invaso Salvador compiendo ogni tipo di razzia continuano indisturbate a seminare il terrore. Secondo i dati diffusi ieri dal governo di Bahia la conta dei morti avrebbe toccato quota 120. «La situazione è critica. Nell’ultima settimana sono state rubate centinaia di automobili, ci sono stati assalti a negozi ed edifici pubblici e sono stati sequestrati decine di camion pieni di merci. E secondo le ultime stime delle agenzie turistiche, a sette giorni dal Carnevale, il dieci per cento dei turisti ha già disdetto le loro prenotazioni» ha rincarato la fonte dell’agenzia missionaria.  Ma ciò che più lascia sbigottiti, è stata senza dubbio la notizia secondo la quale gli agenti in sciopero avrebbero chiesto l’amnistia per tutti i poliziotti coinvolti nella protesta: anche di quelli che sarebbero collusi con la criminalità locale. Una richiesta assurda che il governo ha già bocciato.  In questo momento, infatti, a essere a rischio non è più solo il Carnevale, ma la credibilità di un intero paese che nel giro di quattro anni dovrà ospitare il Mondiale di calcio del 2014 e le Olimpiadi del 2016.

mercoledì 8 febbraio 2012

Brasile: lo sciopero dei poliziotti minaccia il Carnevale

A dieci giorni dalle celebrazioni del Carnevale salta la trattativa che avrebbe dovuto riportare l’ordine nelle strade di Salvador de Bahia. E come se non bastasse,la protesta adesso rischia di stendersi in tutto il Brasile

Salvador de Bahia 08/02/2012 –  Nemmeno la mediazione dell’arcivescovo di Salvador, monsignor Murilo Krieger, è riuscita ad appianare le divergenze tra il governo e il sindacato dei poliziotti. Dopo un lungo colloquio durato 17 ore, le parti sono uscite dalla residenza dell’arcivescovo scure in volto e a mani vuote. Secondo la stampa locale, il nodo da sciogliere sarebbe rappresentato dall’ aumento dei salari. I poliziotti avrebbero richiesto un aumento del trenta per cento degli stipendi alla quale sarebbe seguita una controfferta del 6,5 per cento da parte del governo. Quella di oggi, dunque, più che una vera e propria trattativa, è stato un dialogo tra sordi. E mentre le parti cercavano di trovare un accordo, fuori dall’arcivescovado continuavano le violenze. Gruppi armati di delinquenti hanno continuato a fare razzie e a mietere vittime. Secondo i principali quotidiani dello stato di Bahia il numero dei morti avrebbe già superato le cento unità. La polizia federale e l’esercito, inviati dal governo centrale tre giorni fa per mettere fine all’ondata di violenza che ha travolto la capitale dello stato di Bahia, per il momento non si sono dimostrate all’altezza del loro compito. E la conferma arrivata dal governo di Bahia dell’arresto di uno dei leader della protesta, il presidente dell’Associazione dei poliziotti militari di Bahia Elias Alves de Santana, non rappresenta certo un motivo per cantare vittoria. Ma le cattive notizie non sono finite. Lo sciopero selvaggio che in questi giorni ha messo in ginocchio lo stato di Bahia potrebbe trovare terreno fertile anche negli stati di Espirito Santo e di Rio de Janeiro mettendo a rischio le celebrazioni del Carnevale più famoso del mondo.

martedì 7 febbraio 2012

Bahia: lo sciopero della polizia getta nel caos la capitale

Salvador de Bahia 06/02/2012 – Lo sciopero indetto dalle forze di polizia lo scorso 31 gennaio sta mettendo a dura prova l’immagine del Brasile all’estero. A meno di due settimane dall’inizio dei festeggiamenti del carnevale la protesta è tutt’altro che rientrata. Nella giornata di ieri un manipolo di poliziotti ha occupato il parlamento di  Bahia in segno di protesta. I poliziotti hanno persino rifiutato l’ultimatum del presidente dell’assemblea legislativa, Marcelo Nilo, che li aveva esortati ad abbandonare il palazzo entro la mezzanotte di ieri. Gli scioperanti non si sono fatti intimidire nemmeno dalla presenza dell’ esercito inviato  dal governo centrale per porre fine alle rimostranze bollate ormai come «Illegali» dal ministro della Giustizia brasiliano Josè Eduardo Cardozo. Secondo il ministro  gli organizzatori dello sciopero avrebbero  messo in piedi una «guerra psicologica» allo scopo di screditare le più alte autorità dello stato di Bahia. Non a caso, da quando è iniziato lo sciopero, sono scomparsi dalle strade di Bahia un terzo dei 31000 poliziotti in servizio: tutti hanno incrociato le braccia. E si sa, quando il gatto non c’è i topi ballano. Così, nel giro di pochi giorni  è scoppiato il caos. Decine di bande criminali si sono riversate per le strade di Salvador seminando il terrore tra la popolazione. Risultato: 83 omicidi in appena sei giorni di sciopero. Le immagini dei malviventi che fermano gli autobus per rapinare i passeggeri hanno  fatto ormai il giro del mondo. Ma ciò che più ha colpito l’opinione pubblica è stata la determinazione con la quale i poliziotti hanno portato avanti la protesta. Nella giornata di ieri, uno dei leader della manifestazione, per nulla preoccupato dagli evidenti problemi di ordine pubblico, ha fatto sapere di non avere nessuna intenzione di arrendersi. « Resisteremo a oltranza fino a quando il governo non avrà accettato le nostre richieste» ha detto il portavoce dei manifestanti  ai microfoni dell’emittente Globo News. «Non ne possiamo più di lavorare notte e giorno per una paga da fame. Vogliamo turni di lavoro meno massacranti, uno stipendio adeguato e l’amnistia per i reati commessi fin qui dagli scioperanti» ha rincarato il portavoce. Ma dall’altra parte della barricata, il governo di Bahia non sembra avere intenzione di fare sconi. Nella giornata di ieri, infatti, la magistratura della capitale ha emesso 12 mandati di cattura contro i promotori della protesta. E secondo alcune fonti uno di essi sarebbe già stato arrestato. Il Brasile deve fare presto: tutto deve tornare alla normalità. Tra pochi giorni migliaia di turisti dovrebbero invadere le strade di Salvador per assistere al carnevale. Si, bisogna fare presto: il business non può aspettare.  

giovedì 2 febbraio 2012

Messico: il generale aguzzino finisce dietro le sbarre

Città del Messico 01/02/2012 – «La legge è uguale per tutti: anche per i militari». Questo è quello che devono aver pensato i cittadini di Ojinaga, località a pochi chilometri di distanza dal confine con gli Stati Uniti, quando  hanno saputo dell’arresto del generale Manuel Moreno, il comandante delle truppe militari di stanza nella loro città. E chissà che qualcuno non abbia anche gioito per la notizia. Secondo il quotidiano Reforma, infatti, fin dal giorno del suo insediamento nella piccola città dello stato di Chihuahua, il generale avrebbe fatto tutto quanto era in suo potere, e anche di più, per far rispettare la legge e portare avanti la guerra al narcotraffico iniziata nel dicembre del 2006 dal presidente Felipe Càlderon.  Le accuse mosse al generale e ai suoi uomini sono molteplici e vanno dal rapimento all’omicidio, passando per il sequestro illegale di beni che puntualmente sparivano dall’inventario del materiale sequestrato. E tra i beni sequestrati e poi scomparsi ci sarebbe di tutto: automobili, televisori, computer: finanche un bel po’ di stupefacenti. Insomma, il generale e la sua banda non si sarebbero fatti mancare proprio nulla. Ma al di là delle cose indebitamente sottratte, di sicuro i cittadini di Ojinaga si ricorderanno di Moreno per i suoi metodi. Il generale amava trattare tutti allo stesso modo: criminali e non. Bastava infatti  essere un semplice sospettato per ricevere la visita degli uomini del generale. E il più delle volte, quando gli uomini di Moreno bussavano alla porta c’era poco da stare allegri. Secondo il tribunale Militare messicano, la premiata ditta Moreno  offriva ai mal capitati tre opzioni: le botte, il rapimento e, nel peggiore dei casi, il pacchetto completo tortura- omicidio. Adesso, Moreno e i suoi 29 scagnozzi sono in attesa di giudizio: sono stati messi al sicuro, dietro le sbarre, in una delle prigioni dello stato di Jalisco. O forse, sarebbe meglio dire che, adesso, a essere al sicuro sono i cittadini di Ojinaga… visto quello che hanno dovuto  subire dal 2008 a oggi.

mercoledì 1 febbraio 2012

Romney trionfa in Florida

Tampa (Florida) 01/02/2012 – Dopo aver perso le primarie nel South Carolina dieci giorni fa, Mitt Romney  si è ripreso alla grande infliggendo una dura batosta al suo avversario, Newt Gingrich,in Florida. Romney si è accaparrato il 46 per cento dei voti dei sostenitori del partito Repubblicano grazie a una strategia mediatica tanto costosa quanto efficace. Il miliardario mormone ha riempito di denaro le casse delle  emittenti televisive della Florida al solo scopo di mandare in onda una valanga di spot  sugli scandali sessuali  che hanno travolto  Gingrich quando, negli anni novanta, ricopriva il ruolo di speaker delle Camera dei Deputati degli Stati Uniti. All’ex speaker della Camera è andato il 32 per cento dei consensi dei repubblicani. Tuttavia, Romney sa che non deve farsi illusioni. Secondo gli analisti la strada per diventare lo sfidante di Obama  alle prossime presidenziali  è ancora lunga. Gingrich, infatti, in questo momento è alla ricerca di nuovi fondi e di una nuova strategia elettorale che gli consenta di conquistare mercoledì prossimo lo stato del Nevada.   Ma nel giorno del suo trionfo, il mormone non poteva certo dimenticarsi del suo arcinemico: Barak Obama. E nell’intento di colpire il presidente, Romney ha rispolverato i soliti vecchi concetti tanto cari ai repubblicani.  « Obama vuole dare maggiori poteri al governo centrale  e aumentare il debito pubblico. Io invece voglio diminuire i poteri del governo, limitare la sua influenza nell’ambito economico e ridurre le tasse» ha detto Romney durante il rituale discorso postelettorale del vincitore.